Ep.3
La centrifuga degli investimenti

Il Sacro Graal dell'economia mondiale

I soldi delle multinazionali girano indisturbati per il pianeta anche sotto forma di investimenti diretti esteri (Ide), cioè trasferimenti di capitale e tecnologie da un paese all’altro. Il termine forse ci dice poco, ma gli Ide sono la vera benzina dell’economia mondiale.

Non essendoci sufficienti soldi per finanziare le imprese locali, gli Ide (o in inglese Foreign Direct Investment) sono una buona notizia per tutti: portano da fuori liquidità, posti di lavoro, tecniche innovative e know-how; allargano i confini del mercato; ma soprattutto dimostrano l'interesse di una società estera a fare affari in un determinato territorio a lungo termine. Ecco perché tutti i Governi del mondo cercano di assicurarseli, presentando nel modo più attraente ciò che hanno da offrire, attraverso delle vere e proprie vetrine.

Il mercatino delle nazioni

Perché investire ad Hong Kong? - Fonte: sito istituzionale "Invest Honk Kong"

Perché investire in Lussemburgo? - Fonte: sito istituzionale "Trade and Invest"

Perché investire in India? - Fonte: sito istituzionale "Invest India"

Perché investire in Italia? - Fonte: sito istituzionale "Invest in Italy"

Se analizziamo i dati raccolti dal Fondo Monetario Internazionale e quelli raccolti dall’Unctad (l'agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di commercio e sviluppo) emergono delle anomalie.

L'Unctad ha rilevato che a partire dalla metà degli anni 2000 i centri finanziari offshore e i paradisi fiscali sono stati usati sempre di più dalle multinazionali come canali per gli investimenti diretti esteri: circa il 30% degli investimenti transnazionali delle corporation sono stati fatti passare per Paesi intermediari prima di raggiungere le destinazioni reali. Una stima che è addirittura conservativa secondo Bruno Casella, uno degli economisti più esperti dell’Unctad sulla materia. «A seconda dei parametri utilizzati per definire i centri finanziari offshore – aggiunge -, la percentuale potrebbe aumentare fino a coinvolgere quasi il 50% degli investimenti».

Unctad ha stimato che il danno in termini di minore gettito fiscale legato agli investimenti delle multinazionali tramite centri offshore si aggira intorno ai 100 miliardi di dollari annui per i Paesi in via di sviluppo, 200 miliardi di dollari invece su scala globale.

Tre casi eclatanti

Con una superficie più piccola di Roma, l'hub finanziario asiatico dichiara di ricevere investimenti dall’estero paragonabili a quelli ricevuti da colossi come Stati Uniti e Cina. E non stiamo parlando di investimenti sul mercato azionario, ma di acquisizioni di società, oppure partecipazioni superiori al 10%, o apertura di attività.

Com’è possibile che una regione così piccola riesca a ricevere così tanti investimenti?

Il Fondo Monetario Internazionale ha registrato nel 2015 un valore di attività dirette estere, cioè il totale tra entrate e uscite degli investimenti accumulati da Hong Kong, di 1 trilione e mezzo di dollari, pari a quello che la Germania e la Francia hanno accumulato insieme. Ma da dove arrivano questi capitali?

Nel 2015 il 40% degli investimenti è arrivato dalle British Virgin Islands. Seguono Cina, Paesi Bassi, Cayman e Bermuda. Il dato interessante è che nello stesso anno i soldi usciti da Hong Kong sono tornati esattamente da dove erano venuti: Cina, British Virgin Islands, Cayman e Bermuda. E la dinamica, secondo i dati del Fondo Monetario Internazionale, è la stessa da anni: si tratta quindi di un trend costante.

La top five di Hong Kong

Da dove sono arrivati e dove sono andati gli investimenti di Hong Kong - Dati stock, anno 2015 -
Fonte: Fondo Monetario Internazionale

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Da dove sono arrivati e dove sono andati gli investimenti di Hong Kong - Dati stock, anno 2015 -
Fonte: Fondo Monetario Internazionale

Come dimostrano i dati del Fondo Monetario nel grafico qui sopra, ci ritroviamo di fronte ad una situazione in cui un'isola con 30 mila abitanti, British Virgin Islands, investe ad Hong Kong più della Cina, abitata da un miliardo e mezzo di persone. Seguono le Cayman, 60 mila abitanti, e Bermuda, 65 mila abitanti. E il verso di questo scambio è bidirezionale.

Molti analisti parlano esplicitamente di riciclaggio. Il fiscalista Pietro Bracco, socio fondatore di uno studio che presta consulenza legale e tributaria a livello internazionale, sostiene che: «Questi flussi potrebbero essere il risultato di holding che invece di lasciar fermi i capitali nei propri conti offshore decidono di muoverli alimentando gli investimenti, operazione assolutamente legale. Certo, poi però bisognerebbe capire se quelle holding sono reali».

Per Emiliano Brancaccio, professore ed economista italiano, il problema è alla fonte: «Finché i paradisi fiscali sono autorizzati, per le grandi imprese è molto più conveniente lasciare i capitali offshore. Ma non potendo rimpatriare i soldi che hai nei conti depositati nei paradisi fiscali, devi pure farci qualcosa, e quindi spesso sono investiti in progetti reali in altre parti del mondo».

Un esempio che ci riguarda molto da vicino. A dicembre 2014 il Ministro Padoan firmava un decreto con cui il Lussemburgo smetteva di essere considerato un paradiso fiscale: a partire da quel momento, le società italiane che operano nel Granducato hanno minori obblighi di rendicontazione in Italia.

C'è però un dettaglio, spiega il policy advisor di Oxfam, Mikhail Maslennikov: secondo l’Ocse, il 95% degli investimenti esteri diretti in Lussemburgo è gestito dalle Special Purpose Entities (Spe), holding a proprietà estera interessate soprattutto a fare transazioni finanziarie transfrontaliere. Queste società nel Granducato sono tassate con un’aliquota vicino allo zero sul totale di asset gestiti e sono esentate dal pagamento delle tasse sui dividendi e sugli interessi.

Non sarà quindi una coincidenza se i trilioni di dollari di investimenti stock conteggiati nel Lussemburgo continuano a crescere: si è passati dai 1.790 miliardi di dollari del 2009 {18,24,27,24,29} ai 3.271 miliardi di dollari nel 2015.

Gli investimenti diretti esteri in Lussemburgo

Dati stock - Fonte: Fondo Monetario Internazionale

L'Eurostat segnala che il Lussemburgo utilizza questo tipo di società speciali anche nella direzione inversa: tra il 2013 e il 2015 è lo Stato che ha gestito il 40% del flusso degli investimenti diretti in uscita dall'Unione Europea. Secondo l'Eurostat i centri finanziari offshore sono stati una destinazione comune agli investimenti in uscita dal Lussemburgo.

Bankitalia, in un report del 2016, scrive che con la presenza di queste società a scopo speciale (Spe), che creano degli anelli intermedi nella catena degli investimenti, è impossibile «guardare oltre e individuare l’effettiva origine o destinazione ultima dei capitali investiti». Così ci ritroviamo spesso di fronte a dei casi in cui dietro l’apparente capitale estero investito nelle nostre imprese si nascondono altri cittadini italiani.

Oggi l’India è la settima economia mondiale, ed è universalmente riconosciuta come una delle migliore destinazioni per gli investimenti stranieri.

Ma da dove sono arrivati questi soldi?
Il Ministero del Commercio indiano riporta che dal 2000 al 2011 il 40% del capitale è arrivato dalle Mauritius. Un primato confermato anche negli anni successivi dal Fondo Monetario Internazionale: fino al 2015, Mauritius è sempre al primo posto degli investitori.

Perché proprio dalle Mauritius? A partire dagli Anni 80 fino al 2016 esisteva un trattato grazie al quale chi passava dall'isola per fare investimenti a breve termine poteva ricevere un certo tipo di esenzioni fiscali.

L'India oggi ha deciso di chiudere in modo graduale il trattato e prevede, pertanto, di ottenere un gettito da reinvestire nel Paese, ma soprattutto si aspetta di colpire il girotondo finanziario con il quale molti individui e compagnie indiane evadevano le tasse.

Chi controlla?

Nessuno sta veramente controllando se questi movimenti finanziari sono nella norma.

Pietro Bracco: «Il più delle volte le irregolarità emergono quando gli Stati si scontrano con casi reali di evasione». Il caso dell'India prova che l'anomalia è andata avanti fino a che lo Stato non ha deciso che i contro superavano i pro. Ma per più di 30 anni le Mauritius potrebbero essere state la lavatrice dei piccoli e grandi evasori.

Nel caso di Hong Kong, o di altre realtà che funzionano da smistatori di capitale, invece, chi controllerà? Non le amministrazioni dei "paradisi" le cui economie si sostengono grazie ai movimenti finanziari. Secondo l'Unctad, i flussi in entrata degli investimenti diretti esteri nel 2015 rappresentano pù del 500% del Pil delle Cayman Islands e più del 5.000% del Pil delle British Virgin Islands. Per capire quanto colossali siano queste cifre, è sufficiente un paragone con Cina e Usa, dove le entrate dei flussi di investimenti esteri sono rispettivamente all'1 e al 2% del Pil.