Il Far West
dell’e-commerce

Dal carrello della spesa giornaliera ai prodotti griffati, il web è ormai un grande bazar pronto a soddisfare tutte le voglie di acquisto. Centinaia di milioni di clic per miliardi di euro che escono dalle tasche dei webconsumatori per entrare direttamente – senza mediazioni, né tassazioni – nelle casse delle più grandi multinazionali del settore.

Nel 2016 l’e-commerce ha generato un giro d’affari globale di oltre 2.000 miliardi di euro, con 1,5 miliardi di compratori attivi, di cui la grande maggioranza in Cina (circa 500 milioni), a seguire l'Europa (300 milioni) e gli Usa (180 milioni).

Vendite e-commerce in Europa

Per quanto fanalino di coda europeo, anche in Italia il mercato è in crescita. Circa 20,7 milioni di utenti nel 2016 hanno acquistato servizi o prodotti on-line. Il valore complessivo delle transazioni ha raggiunto i 19,6 miliardi di euro e nel 2017 si stima che possa raggiungere i 23 miliardi (+19% su base annua).

Valore degli acquisti e-commerce da consumatori italiani

in miliardi di euro

Fonte: Osservatori.net ecommerce B2c - Politecnico Milano

Dunque sempre più italiani acquistano online e, per la prima volta, i prodotti (12,2 miliardi di euro) superano i servizi (11,4 miliardi di euro). E nelle transazioni lo smartphone prevale rispetto al tablet, 55 contro 45%.

Ma alla crescita esponenziale del commercio elettronico non corrisponde un’adeguata regolamentazione. Anzi, il mercato si espande senza alcun controllo. A vantaggio soprattutto delle grandi società che operano nel settore.

Amazon, eBay, e tanti altri colossi internazionali dell'e-commerce continuano a godere di regimi fiscali vantaggiosi e di un sistema che consente loro di incassare moltissimo senza troppi oneri.

Un mercato fuori controllo

I rischi vengono dalle transazioni globali, spesso anonime e prive di intermediari. Una società riesce facilmente a evitare di rendersi una “taxable presence” nel territorio dello Stato dove è attiva sul mercato. Così le multinazionali pur usando la Rete e le infrastrutture di un Paese, ad esempio l’Italia, possono operare senza pagare nulla.

Andrea Di Gialluca, ricercatore della Fondazione Bruno Visentini, spiega che una società con un grande volume di affari può avere un proprio server che però non è sufficiente a provare la “stabile organizzazione”. Ed è proprio il caso delle cosiddette Over the Top (Ott): imprese che forniscono, attraverso la rete Internet, servizi, contenuti (soprattutto video) e applicazioni di tipo "rich media" (per esempio, le pubblicità che appaiono sulla pagina di un sito web mentre lo si visita e che dopo una durata prefissata scompaiono). Esse guadagnano soprattutto con la vendita di contenuti e servizi agli utenti finali o di spazi pubblicitari, come nel caso di Google e Facebook. Tali imprese, prive di una propria infrastruttura, agiscono al di sopra delle reti, da cui il termine over-the-top.

In molti casi le multinazionali localizzano i server nei Paesi a fiscalità privilegiata, che consentono alle principali web companies di sottrarre imponibili ai Paesi in cui la ricchezza viene effettivamente prodotta. Secondo un rapporto del Parlamento Europeo tra il 2013 e il 2015 i paesi dell’UE hanno perso circa 5,4 miliardi di euro per i mancati versamenti da parte di web company come Google e Facebook.

L’ Italia è riuscita con le carte bollate a far pagare a Google 306 milioni di euro per gli utili prodotti nel territorio nazionale dal 2002 al 2015, a fronte di un giro d’affari decisamente più vasto. Secondo i dati forniti dall'UPB (Utenti Pubblicità Associati), ed elaborati dall'agenzia di stampa Adnkronos, nel 2015 due giganti come Google e Facebook hanno versato insieme 2,4 milioni di euro. Considerando che il ricavo realizzato in Italia ammonta a 870 milioni, le tasse pagate sono pari allo 0,3%.

Con riferimento al mercato europeo, ricorda l'UPB, per Google e Facebook i loro ricavi di gruppo sono concentrati in Irlanda: il ricavo dichiarato e tassato in Italia non supera lo 0,3 per cento per Google e lo 0,1 per Facebook dei rispettivi totali contro un ricavo che corrisponde a transazioni localizzate in Italia stimate pari a circa il 2,4 per cento per Google, e al 2,8 per cento per Facebook, "con una significativa perdita di gettito per il sistema tributario nazionale".

E per il futuro non ci sono garanzie, se non accertamenti fiscali e procedimenti legali da avviare ancora una volta per ottenere il dovuto. Tra l’altro proprio Google, negli ultimi tempi, ha lanciato anche una nuova piattaforma per pagamenti online, che contribuirà ad aumentare ulteriormente il giro d’affari.

Così, in assenza di dati certi, al Fisco italiano restano solo calcoli ipotetici e riscossioni forfettarie. Stesso discorso vale per tutte quelle altre multinazionali che dominano il web e che fanno dell’e-commerce il proprio business principale. Come eBay.

In Italia, oltre 30 mila venditori si sono affidati a eBay per vendere online e raggiungere centinaia di milioni di acquirenti in tutto il mondo. A caro prezzo per l’economia del Paese e per il sistema fiscale.

La deregulation del web: IVA e IRPEF perdute

A oggi i venditori online versano l’Iva solo dopo aver venduto una specifica quantità di prodotti in un singolo paese (le soglie vanno, a seconda dei paesi, dai 35.000 ai 100.000 euro). L’Unione Europea vorrebbe introdurre una soglia unica pari a 10.000 euro. Una volta superata questa soglia, il venditore è obbligato ad adeguarsi alla normativa fiscale del paese dell'acquirente e ad addebitare l’aliquota Iva in vigore.

Magazzino di Amazon / GettyImages

L’Ue ha pensato a questa norma per colpire l’evasione fiscale, stimata in circa 7 miliardi di euro all’anno, dovuta proprio a quei venditori che apparentemente fatturano poco e godono di regimi agevolati. L’obiettivo è evitare che le aziende nascano e muoiano all’avvicinarsi della soglia, per non pagare l’Iva dovuta. E impedire ai venditori di fingersi privati cittadini quando in realtà hanno costruito attorno a eBay e siti simili un vero business.

A questa “nuova regola” si oppongono però le multinazionali. Proprio eBay, ad esempio, ha lanciato una campagna per bloccare le nuove norme europee. Con una mail inviata agli utenti chiede l'appoggio a una petizione: “Unisciti a noi e schierati contro la proposta di una nuova normativa fiscale sull’Iva nell’Unione Europea, aiutaci a tenere i prezzi bassi”.

Intanto, nell'attesa che si legiferi in materia, Google, Apple, Facebook, eBay e Amazon rimangono per l'Italia e per altri paesi praticamente fantasmi fiscali. Non solo per l’Iva sulle transazioni commerciali, ma anche per tutte le altre imposte dovute. A far quadrare i bilanci pubblici quindi restano ancora “solo” le tasse pagate dai cittadini e dalle piccole medie imprese.



I piani dell'Ocse

Il principale problema individuato dall’Ocse sulle imposte mancate riguarda l’accertamento della “stabile organizzazione”. Per l’Organizzazione questo sarebbe il nodo da sciogliere. A questo proposito è stato proposto un programma di contrasto alle pratiche di erosione della base imponibile e di traslazione di profitti (Base erosion and profit shifting - Beps).

Il 7 giugno 2017 a Parigi è stata firmata da 76 paesi la Convenzione multilaterale sulle misure previste dal Beps:

  • migliore definizione del concetto di stabile organizzazione anche attraverso l’accertamento di “una presenza digitale significativa” dell’impresa nell’economia del territorio di uno Stato diverso da quello di residenza.

  • introduzione di una ritenuta a titolo di imposta sui pagamenti effettuati da soggetti residenti in un determinato Stato come corrispettivo di beni digitali o di servizi prestati da una impresa di e-commerce non residente.


Foto di gruppo dei rappresentanti degli Stati e delle giurisdizioni che hanno partecipato alla firma del 7 giugno 2017 a Parigi / Flickr - Ocse

Ma queste misure sembrano essere solo un palliativo e non spaventano i giganti del settore.

Per questo il 29 settembre a Tallin (Estonia), in occasione di un vertice dell’Ue, alcuni paesi europei hanno ribadito la necessità di una Web Tax comune. Italia, Francia, Germania e Spagna hanno presentato un documento congiunto in cui chiedono una rapida regolamentazione per fare in modo che "i nuovi modelli di business siano tassati efficacemente".

La richiesta è far pagare l'Iva sulle transazioni "a prescindere dalla natura fisica o digitale" dei prodotti. E far pagare le tasse sui profitti. A sostenere la proposta potrebbero essere una ventina di paesi. Restano contrari: Irlanda, Lussemburgo, Malta e Cipro, che pur non essendo tra i paradisi fiscali riconosciuti>, continuano a praticare tassazioni a dir poco vantaggiose a danno delle casse degli altri paesi europei.

In Italia, intanto, è in discussione da tempo una tassa per i giganti del web. La prossima legge Finanziaria potrebbe essere l’occasione per passare dalla teoria alla pratica. Le ipotesi sul tavolo sono due. La prima: un prelievo tra il 2% e il 5% sul fatturato delle aziende senza stabile organizzazione per far emergere i ricavi effettivamente prodotti nel Paese. La seconda: introdurre l’obbligo della stabile organizzazione e imporre il pagamento dell’Iva dovuta.

Il caso dei Bed & Breakfast

Altro settore su cui il governo italiano ha deciso di intervenire per contrastare l’evasione fiscale è quello delle transazioni online relative agli affitti di appartamenti e strutture di B&B, nel breve periodo (contratti con durata inferiore ai 30 giorni). Un sistema che, secondo l’Agenzia delle Entrate, ha favorito le locazioni in nero, perché i compensi, gestiti direttamente dal portale, sono diventati ancora meno tracciabili da parte del fisco.

Perciò si è deciso di utilizzare i portali web come Airbnb, Homeaway e Booking.com, c he mettono in contatto proprietari di strutture extra alberghiere e ospiti, come dei veri e propri sostituti di imposta. Saranno questi intermediari, dunque, a versare le tasse sugli affitti percepiti dai proprietari. Una scelta contestata dagli stessi portali contrari all’idea di fare da esattori. Ma la strada intrapresa resta questa.

Gli intermediari devono:

  • inviare alle Entrate una comunicazione in occasione della stipula di ogni nuovo contratto, pena una sanzione da 200 a 2mila euro. La sanzione è ridotta se la trasmissione avviene entro quindici giorni dalla scadenza, o se nello stesso periodo viene corretta.
  • trattenere una ritenuta del 21% sui proventi della locazione e versarla con il modello F24.
  • inviare ai proprietari una certificazione annuale con gli importi pagati al fisco.

I nuovi obblighi riguardano solo i contratti stipulati a partire dal 1° giugno 2017. E una delle novità riguarda chi offre in locazione una casa senza esserne il proprietario.

Attraverso le piattaforme tipo Airbnb, infatti, molti inquilini hanno dato in sublocazione la casa, sfuggendo a ogni controllo. Da ora in poi, invece, non sarà più possibile evitare le imposte perché ai fini dell'applicazione conta chi ha stipulato il contratto. Il meccanismo anti evasione dovrebbe essere allargato a tutto il settore. Non solo agli affitti brevi. Così dal 2018 anche chi affitta per più di 30 giorni dovrà versare le tasse.

Un altro piccolo tassello di regolamentazione nel caotico mercato dell’e-commerce. Ma certamente ne serviranno ancora molti.